“Le persone senza cultura sono come la case senza fondamenta”, recita così un celebre adagio inappuntabile e veritiero, al quale mi ispiro per dar seguito ad un personale e sincero esercizio di “kazzeggio” intellettuale che mi porta ad affermare: “i vini senza storia sono come le anime in perenne smarrimento”. Infatti, se attualmente parliamo di Prosecco, inteso sia come vino che come vitigno glera, dobbiamo inscindibilmente volgere lo sguardo verso il passato ricordando così il verdiso, la bianchetta, la boschera, la perera… viti che nei secoli precedenti – nel bene o nel male – hanno storicamente contribuito alla metamorfosi gustativa della seducente bollicina più ricercata del momento.
La serata organizzata da Onav alla quale ho partecipato di recente dal titolo “Antichi vitigni trevigiani e bellunesi”, è stata una educativa e appassionante lezione di storia del contesto vitivinicolo locale, caratterizzata da un parterre di esperti relatori (Emanuele Serafin e Umberto Marchiori), e impavidi produttori pronti (probabilmente) a sacrificare qualche dindino in più da mettere in saccoccia, in nome della passione e della salvaguardia di un sacro bene immateriale che è la Storia; si, proprio quella con la S maiuscola.
Facendo un rapido excursus si possono innanzitutto definire dei confini, o meglio delle iatture, che in Italia e in Europa hanno segnato a livello macroscopico la storia recente della vitis vinifera sativa: si comincia dal 1709 con la grande gelata che ha fatto letteralmente esplodere e morire numerose piante del vecchio continente; successivamente si passa al 1854 quando dall’America arriva con stivali e copricapo da cowboy l’oidio, il fungo più odiato dal mondo viticolo, e per le viti son di nuovo mazzate; per non farsi mancare proprio nulla, nel 1871, e sempre da Oltreoceano, giunge sornione un piccolo parassita tanto minuto quanto voracemente affamato dell’apparato radicale della vite europea: è l’apocalisse! Gran parte del patrimonio ampelografico già messo in ginocchio dall’oidio viene massacrato pure dalla fillossera; si riesce ad ovviare a questo flagello innestando il piede americano alle viti europee, e infatti da quel momento in poi la Nike ha iniziato a spopolare. Da notare che in Italia, sempre nel 1871, il consumo di vino pro capite era di 160 litri (ai giorni nostri è intorno ai 36 litri), robe che ti facevano l’alcool test anche quando camminavi sui marciapiedi.
È giunto ora il momento di descrivere I vini assaggiati durante la serata, costituiti da veri e propri cimeli viticoli della zona trevigiana e del basso bellunese:
• Perera, dalla cantina Marchiori di Farra di Soligo, è il primo produttore della zona che ha recuperato questa varietà che viene vinificata in purezza (solitamente viene usata in uvaggio col glera per produrre prosecco). Più scorbutica del glera, meno produttiva, non è un’uva “democristiana” anche se studi del passato dimostrano che i vignaioli le avevano attribuito l’appellativo di “uva della Madonna”: poteva infatti venir vendemmiata intorno all’8 dicembre conservando tranquillamente la sua splendida integrità (morale e fisica), grazie alla buccia molto carnosa e ad un naturale tenore acido. Il vino è di colore giallo paglierino oro molto carico, al naso colpisce un profumo tropicale intenso, in bocca spicca la graffiante acidità e note di origano e timo. Come primo vino è il classico gol a freddo, spiazzante.
• Grapariol, ovvero Rabosina bianca, cantina Barbaran di Zenson di Piave. Probabilmente la sorella minore del Raboso Piave (a bacca rossa), la Rabosina si presta nella produzione vini spumanti e frizzanti. Da non confondersi con la Rabosa bianca – più coriacea e robusta. L’azienda in questione ha recuperato questo vitigno scoprendo ceppi di più di 70 anni d’età. Il vino ha un colore giallo paglierino, profuma di mela gialla e banana, fresco in bocca porta in dote una bella bolla “ruffiana” e piacevole, unita ad una inaspettata persistenza.
• “Pat Storico” brut 2013, azienda Pat del Colmel situata tra Monfumo e Castelcucco, sui Colli Asolani. Le viti per la produzione di questo spumante hanno un’età media superiore ai 100 anni e si reggono tra di loro facendo fronte comune per adattarsi ad una pendenza collinare che varia dal 50 al 60 per cento. Il blend di uve che caratterizza questo nettare è costituito da Rabosa bianca, marzemina bianca, trebbiano, verduzzo, malvasia, bianchetta, perera e glera. Il vino ha un’acidità non troppo sostenuta, bella sapidità, una bollicina sottile, è ben amalgamato e nonostante sia un brut porta con sé un finale tendente al dolce.
• Bianchetta 2014 extra dry, vino spumante prodotto dalla cantina De Bacco situata tra Feltre e Seren del Grappa, nel bellunese. Vitigno presente nel trevigiano e soprattutto nel basso bellunese già a partire dal 1800, si tratteggia quale portatore di note fruttate, speziate e quasi mentolate. L’azienda in questione coltiva la Bianchetta nelle zone chiamate Mugnai e Fonzaso, sempre in provincia di Belluno. Il vino è di color giallo paglierino con riflessi verdognoli, sentori di mela verde al naso, bello cremoso, fresco e ampio in bocca. In degustazione è stato proposto anche un assaggio di Bianchetta in versione ferma, vendemmia 2015, si percepisce ancora il pieno sentore di lieviti “esausti”, comunque denota una bella sapidità.
• Gattera annata 2015, vino prodotto dalla cantina De Bacco dal vitigno omonimo (detto anche Gatta), coltivato nel feltrino in minima quantità (non più di 5.000 metri quadrati giura il produttore), si trova sporadicamente anche nel Solighese e nel Montello. Vinificato con la tecnica della “vinificazione integrale”, grazie ad una istrionica tonneuax che gira e ruota su sé stessa come una leggiadra ballerina così da favorire follature e operazioni collaterali, il vino è di colore rosso rubino con molteplici profumi di ribes-ciliegia-susina, in bocca si sente il tannino verde e spicca l’acidità.
• Vanduja 2013, vino prodotto dalla cantina De Bacco con uve Pavana e Gatta. La Pavana è un’uva diffusa tra il Trentino, la Valsugana e il bellunese ed è caratterizzata dall’elevata acidità con tenori che arrivano ad inseguire quelli delle uve bianche. Il vino è rosso rubino carico, al naso custodisce sentori di frutti di bosco mentre in bocca spiccano i chiodi di garofano; è acido e dal tannino ancora giovane ma non fastidioso.
• Recantina 2013, prodotta da Pat del Colmel. Vitigno a bacca rossa che nel terreno roccioso delle colline di Monfumo ha trovato il suo adeguato habitat naturale: “È il miglior vitigno autoctono di uve rosse della Marca Trevigiana” afferma tronfio ed emozionato il sig. Forner (titolare di Pat del Colmel). Il vino è un tripudio di lampone e mora al naso, in bocca si sente il legno della botte di rovere peraltro non invasivo, il tannino emerge amarognolo e piacevole nel finale. Un fuori programma finale è stato riservato all’assaggio del vino prodotto da uva Rabosa bianca, sempre di Pat del Colmel (vendemmia 2015), esso sarà la base per il metodo classico che ritroveremo dopo la sboccatura manuale tra circa 36 mesi; e se il buongiorno si vede dal…anzi, se il buon vino si vede dal mattino, le scommesse per la splendida riuscita di questo metodo classico hanno subito una sospensione per eccesso di rialzo.
Ho osato iniziare questo brano con una citazione e vorrei concluderlo temerariamente sciorinandone un’altra: “il futuro è passato e noi non ce ne siamo accorti”. Onorato di scoprire gli antichi vitigni autoctoni del passato, sono certo che questi ci aiuteranno anche in un prossimo futuro ritagliandosi l’importante ruolo di strenui ambasciatori e sentinelle anti omologazione viticola, e si ergeranno a baluardo del nostro patrimonio culturale tout court.
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